La Veronal è una compagnia teatrale fondata dal giovane coreografo catalano Marcos Morau (32 anni) nel 2005, con l'obiettivo di ricercare un linguaggio scenico che sia il risultato di una compresenza di più linguaggi espressivi: il cinema, la letteratura, la danza, la fotografia il tutto con la precipua finalità di rintracciare spazi poetici sempre nuovi.
Il lago Baikal in Siberia è testimonianza equorea della complessa evoluzione del nostro pianeta; glaciale metafora del concetto stesso di nascita, esso, difatti, è il frutto di uno strappo, una frattura, una lacerazione della crosta terrestre avvenuta circa 30 milioni di anni fa. Perché una ferita è all’origine delle cose, di tutte le cose, una ferita è all’origine della vita e dunque del viaggio di cui essa si sostanzia. Ogni viaggio è un venire alla luce attraverso una spaccatura che costituisce l’unica finestra sul mondo dell’esistenza allo stato larvale; il viaggio comporta sempre una perdita perché è inscritto in un processo di mutamento, non necessariamente di crescita, ma di mero mutamento: evoluzione psicofisica che può sì approdare ad una palingenesi, ma anche al delitto, all’affiorare della liquida oscurità dell’animo umano. L’esito del viaggio è sostanzialmente incerto, dunque, esso finisce con l’assumere i connotati del “mistero”.
In questo inquietante “mistero” profano che è Russia della catalana Veronal il palcoscenico è vuoto, fatta salva una berlina rossa anni ’60 al centro della scena – una delle tante icone del viaggio naturalmente – e, sul fondo, un piccolo schermo nero rettangolare sul quale è proiettato un testo incentrato sul viaggio di un uomo e di una donna verso il lago Baikal in Siberia. I ballerini indossano abiti poveri, di fortuna, per lo più tute da ginnastica, maglioni desueti (vaga eco degli anni ’80) e pantaloni kaki. La Russia dello spettacolo di Marcos Morau, in scena l’8 e il 9 giugno nella piazza d’armi del Castel Sant’Elmo, non è soltanto un luogo geografico, ma la spazializzazione onirica del tessuto emozionale dei protagonisti, dolenti campioni di una umanità disorientata di fronte all’abisso teleologico. I ballerini come nudi tendini di un arto invisibile suonano una complessa melodia fatta di contorsioni fisiche e suoni babelici (distinguiamo almeno il russo e il cinese). Va difatti precisato che il linguaggio espressivo scelto dal coreografo catalano non è, come ci si aspetterebbe data la natura della performance, quello meramente corporeo, tutt’altro: al di là della partitura percussoria di piedi e mani contro l’impiantito scenico o il corpo stesso dei ballerini, questi ultimi, urlano, sussurrano, biascicano frammenti di un testo inintellegibile, ciascuno nella propria lingua d’origine.
I due protagonisti del testo letterario proiettato sullo schermo, questi archetipici uomo e donna diretti verso gli insondabili abissi di uno dei laghi più profondi della terra, agiscono concretamente sulla scena - in un inquietante processo di moltiplicazione cinetica e corporea - grazie alla sapiente tessitura coreutica degli otto ballerini protagonisti. Lo spettacolo, dal punto di vista coreografico e contenutistico, ha la stessa cifratura arcaica ed esoterica di una danza orientale, è questa croce e delizia dello spettatore di Russia che si trova costretto ad abbandonare le proprie rassicuranti categorie diegetiche per inerpicarsi nel tortuoso sentiero sconnesso del sogno. Non è facile, non sempre ci si riesce, e qualche volta si resta vagamente frustrati.